Cronaca 7 – L’Ombra/Il reprimere

“Se ogni giorno cade
dentro ogni notte
c’è un pozzo
dove la chiarità sta rinchiusa.
Bisogna sedersi sul bordo
del pozzo dell’ombra
e pescare luce caduta
con pazienza.”
Pablo Neruda

Nel labirinto avviene un continuo gioco fra figura e sfondo: ogni volta che la nostra attenzione si concentra su un particolare, il resto della scena tende a sfocarsi e, non appena distogliamo lo sguardo dal singolo elemento, ecco che il resto ricompare.

Non potrebbe essere diversamente visto che il termine stesso attenzione (ad-tensione) deriva proprio dal gesto di volgersi verso, essere proteso, e visto che “attento” significa, quindi “con la mente rivolta ad un oggetto”. In questo tendere verso sta il senso della creazione di interi paesaggi mentali e la domanda “Dove sono?” di cui ho parlato nelle prime cronache è molto simile all’interrogazione “Dove sto guardando?” di cui tratterò nella presente.

E siccome nel mio lavoro è sempre una buona idea quella di partire dai sintomi; siccome sono i sintomi che hanno spronato i terapeuti a guardare in un certo modo e a cercare in certe direzioni; un buon modo per capire dove sto guardando è chiedermi: cosa non sto vedendo? Da che cosa il mio sguardo continua a discostarsi? Su cosa sono cieco?

Porsi queste domande significa cominciare a guardare verso quella parte dell’individuo che C.G.Jung definì “L’Ombra”.

Secondo Jung l’Ombra corrisponde alla parte più negativa e sgradevole della psiche, una parte che raccoglie in sé una serie di impulsi istintuali che l’individuo ha represso. Mentre la Persona rappresenta il nostro aspetto pubblico che mettiamo tranquillamente in luce perché non ci dispiace renderlo noto o addirittura esibirlo, l’Ombra è invece quella parte di noi di cui abbiamo imparato a vergognarci: il lato oscuro e poco presentabile.

Lo scrittore e poeta Robert Bly nel suo “Piccolo libro dell’Ombra”, per esemplificare questo concetto, usa l’antica metafora del sacco che portiamo appeso alle spalle: “Passiamo i primi vent’anni della nostra vita a mettere nel sacco parti di noi stessi e passiamo il resto della nostra vita a cercare di tirarle fuori. A volte recuperarle sembra impossibile, come se il sacco fosse sigillato. Poniamo che il sacco resti sigillato; cosa succede allora? Un grande racconto del secolo scorso propone una risposta a questa domanda. Una notte Robert L.Stevenson si svegliò e raccontò alla moglie un pezzo di un sogno che aveva appena avuto. La moglie lo indusse a scriverlo e il sogno diventò Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Nella nostra cultura idealistica il lato positivo della personalità tende a diventare sempre più positivo. L’uomo può diventare un medico socialmente impegnato che pensa continuamente al bene altrui…Ma la sostanza racchiusa nel sacco assume una personalità propria che non si lascia ignorare. Il racconto dice che la sostanza contenuta nel sacco un giorno compare in un’altra zona della città. La sostanza contenuta nel sacco è arrabbiata; e a vederla, ha la forma di uno scimmione e si muove come uno scimmione.”.

Insomma, la parte che abbiamo represso non si limita a restarsene lì tranquilla, relegata in una parte oscura del labirinto. L’altra zona della città è un altro “dove”, è un luogo favorevole alla fuoriuscita dell’Ombra e non è un caso se, in genere dopo i trent’anni, quando alcune delle tendenze che avevamo seppellito nella prima parte della nostra vita, spingono per riemergere, lo fanno in un modo che ci incute timore e che ci turba profondamente.

Il signor Hyde non era affatto uno scimmione pericoloso quando il giovane Jekyll ha iniziato a nasconderlo (il nome Hyde in inglese si pronuncia esattamente come il verso to hide che significa, appunto, nascondere).

Ciò che ognuno di noi ha messo nel sacco e  smesso di guardare sono quelle cose che ci hanno fatto credere che non andassero bene: i vari “possibile che tu non riesca a stare ferma?”, “impara a stare seduta composta! Adesso che sei grande, non vorrai che ti prendano per un maschio?” e, al bambino, invece, “non puoi piangere come una femminuccia!” ecc.

Da bravi mammiferi sociali, abbiamo fatto di tutto per adeguarci alle richieste che la famiglia e il gruppo ci hanno rivolto. Abbiamo lavorato attivamente per costruire una Persona che fosse accettabile, benvoluta e di successo e, nel farlo, abbiamo messo in Ombra una serie di aspetti della nostra personalità che pensavamo che ci avrebbero resi meno “politicamente corretti”, meno accettabili.

Ed è proprio su questi lati della nostra personalità che, pian piano, siamo diventati ciechi. Non ci accorgiamo di certi nostri tratti che per gli altri sono evidenti, tendendo così a vedere la pagliuzza nell’occhio dell’altro e perdendo di vista la trave nel nostro.

Tutto questo non avviene a livello conscio: non c’è una decisione chiara che ci porta a decidere di eliminare certi aspetti per mantenerne degli altri; è qualcosa che succede mentre svolgiamo il complesso compito di portare avanti la nostra vita. Siamo impegnati a guardare da un’altra parte e, strada facendo, mettiamo nel sacco dietro alle nostre spalle un bel po’ delle cose che agli altri potrebbero non piacere o che, pensiamo, li renderebbero meno ben disposti nei nostri confronti.

Capita così, ad esempio, che un ragazzo cominci ad evitare, reprimendoli, tutti quegli aspetti che lo farebbero sembrare troppo femminile, imparando a gestire le emozioni “come le gestisce un uomo”. Crescendo, diventa sempre meno bravo a fare i conti con il proprio lato emotivo e, quando si sposa, lascia alla propria moglie il compito di trattare tutto ciò che è emotivo, mandando avanti lei ogni volta che i figli avranno bisogno di essere consolati o si imbatteranno in un problema che non sia “pratico”.

In questo modo potrà diventare, esteriormente, un maschio adulto conforme: uno che non si lascia troppo prendere dalle emozioni e che si occupa innanzitutto degli aspetti concreti e fattuali di una questione. Ma dove andrà a finire la sua parte emotiva? Che ne sarà di quelle parti di sè  che ha smesso di guardare?

Finiranno nell’Ombra, più o meno in profondità, più o meno lontane dalla personalità visibile e esposta alla relazione. E più certe parti vengono allontanate e chiuse senza possibilità di sfogo nel sacco che ognuno di noi porta con sé, più tenderanno a uscire con violenza e in modo sintomatico.

Capita, in seduta, di vedere quanto questi aspetti repressi della personalità confluiscano insieme in un sintomo. Molte delle pazienti che ho seguito e che soffrivano di attacchi di panico sembravano, viste dal di fuori, tutt’altro che “donne fragili” o “emotivamente instabili”, anzi, spesso, sono proprio quelle donne che hanno imparato ad essere indipendenti, con “tutto sotto controllo” e con mille cose da fare che, di colpo, si ritrovano a dover sperimentare momenti di terrore in cui più niente può essere controllato e, improvvisamente, si passa da una posizione di efficienza e padronanza ad un’altra in cui ci si sente completamente impotenti.

Ed è proprio nel panico che ci si rende conto di quanto il nemico sia interno: i sintomi arrivano all’improvviso e in modo inspiegabile e quasi sempre in situazioni del tutto familiari. E di colpo l’ambiente diventa alieno e minaccioso.

Una mia paziente mi raccontò di come la stessa piazza che aveva attraversato migliaia di volte per recarsi al lavoro diventò un giorno completamente invalicabile, come se il semplice gesto di passare dall’altra parte fosse “troppo per le mie forze”.

Scoprimmo insieme, mesi dopo, quando fu in grado di guardare con più serenità a quei momenti di terrore, quanto avesse rimosso, non ascoltato e quasi schernita, quando la vedeva incarnata da donne molto meno “forti” di lei, la propria fragilità.

Questi aspetti poco adatti di sé erano rimasti ad aspettarla proprio in quella piazza così familiare che si trasformò in un luogo da incubo. Nel suo panico l’Ombra fuoriuscì di colpo da una prigione troppo a lungo sigillata, trasformando i soliti luoghi in altre zone del labirinto. I posti rassicuranti e familiari diventarono perturbanti e minacciosi. Fu un incontro davvero spaventoso con una parte di sé che quando, anni prima, era stata accantonata, non era certo un mostro ma che, ora, nel sintomo, usciva portando con sé tutta la violenza con cui la donna forte l’aveva rimossa.

Questa esperienza e molte altre che ho sentito e sento raccontare sono testimonianze dirette ed esempi di come un’Ombra non ben incorporata nella vita conscia di un individuo possa comportarsi come una vera e propria forza autonoma, che a volte irrompe nella quotidianità con sintomi eclatanti come il panico e, altre volte, semplicemente preme sull’individuo con emozioni e sentimenti sgradevoli e “antipatici” che più vengono rifiutati più insistono, come se nel sacco non ci fosse qualcosa di inerte ma qualcosa di vivo che spinge per venire alla luce.

Compito di una psicoterapia è quello di dare spazio e integrare l’Ombra. Come ebbe a dire Jung: “Se le tendenze dell’Ombra che vengono rimosse non rappresentassero altro che il male, non esisterebbe alcun problema. Ma l’Ombra rappresenta qualcosa di inferiore, primitivo, inadatto e goffo e non è il male in senso assoluto. Essa comprende fra l’altro delle qualità inferiori, infantili e primitive che in un certo senso renderebbero l’esistenza umana più vivace e più bella; ma urtano contro regole consacrate dalla tradizione.”.

Le qualità racchiuse nell’Ombra vanno recuperate. Si tratta di rendere disponibile nuovamente tutta una parte di energia che altrimenti stagnerebbe rendendo intere parti della nostra personalità “dimezzate”, prive di spessore e piatte, poco vitali.

E’ un lavoro che parte dalle domande: “Dove sto guardando?” e “Cosa sto cercando di non vedere?”. Sono domande difficili ma sono ottimi strumenti per riportare alla luce parti fondamentali di noi stessi.

Del loro uso mi occuperò nelle prossime cronache, mentre questa finisce con questi pochi cenni che hanno voluto essere una prima occhiata sulle parti più oscure e spesso più interessanti del labirinto.

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2 risposte a Cronaca 7 – L’Ombra/Il reprimere

  1. Alice Twain ha detto:

    Stevenson era edimburghese, ed Edimburgo è una città a sua volta divisa in due: da un lato dei Prince’s Gardens (l’antico Nor Loch) c’è la Old Town, all’epoca ancora un quartiere relativamente malfamato, cadente, affollato, malsano, un dedalo di vicoli e sottopassi brulicanti di un’umanità misera; dall’altro lato c’è la New Town edoardiana, con la sua mappa accuratametne disegnata di strade perpendicolari, ordinate, suddivise tra passeggiate monumentali per l’élite che la abitava e strade collaterali dedicate al personale di servizio (http://g.co/maps/fgt9r). Lo stesso Stevenson è nato non lontano dall’area della New Town (o meglio di una sua estensione) per poi muoversi a ridosso dei Queen’s Gardens.
    Credo possa essere interessante anche notare che la Old Town, all’epoca appunto sovrappopolata e insalubre tuttavia è delimitata dal castello di Edimburgo da un lato e dal palazzo reale di Holyrood (residenza edimburghese dei sovrani britanici) all’estremità opposta. Insomma, i due indirizzi più prestigiosi della città stanno uscio a uscio con i vicoli più malsani (almeno un tempo).

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